Con la Circolare n. 3 del 25 gennaio 2018 l’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) ritorna sulle problematiche legate alla mancata applicazione dei contratti collettivi siglati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

I contratti collettivi di lavoro: cosa sono?

Il contratto collettivo è un contratto di lavoro stipulato NON a livello individuale, bensì a livello collettivo, tra le organizzazioni rappresentanti dei lavoratori dipendenti (i sindacati) e i loro datori di lavoro o i rispettivi rappresentanti (associazioni di categoria). In sostanza trattasi di quei contratti “di riferimento” volti a disciplinare il rapporto di lavoro tra più datori di lavoro e più lavoratori, ove questi non pattuiscano nulla di diverso a livello individuale, prevedendo anche dei limiti “minimi” normativi ed economici non valicabili.

L’art. 51 del T.U. dei contratti di lavoro (D. Lgs. 81/2015) aggiunge però qualcosa in più alla definizione di cui sopra, stabilendo che “per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionaliterritoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali [RSA] ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria [RSU]”.

È dunque evidente che la legge considera come “contratti collettivi” solamente quelli “stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”: ma cosa vuol dire? In sostanza il legislatore ritiene meritevoli di questa “denominazione” solamente quei contratti sottoscritti da associazione sindacali che siano in grado di rappresentare in modo adeguato il più ampio numero di lavoratori.

Ma in sostanza, cosa significa? In tal senso si sottolinea che sono ritenuti indici sintomatici di un adeguato grado di “rappresentatività comparata” i seguenti elementi:

  • numero complessivo di propri lavoratori iscritti e occupati a livello nazionale;
  • diffusione territoriale (numero di sedi presenti sul territorio e ambiti settoriali);
  • numero dei contratti collettivi nazionali sottoscritti.

Non c’è mai stata una “classifica ufficiale” delle associazioni sindacali più rappresentative in Italia (c’è comunque un tentativo in atto, tramite il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, sebbene valido per le sole aziende aderenti a Confindustria), anche se – basandosi su un dato di “sentire” storico – si può ragionevolmente affermare che i sindacati che oggi posseggono tali requisiti sono sostanzialmente quelli della c.d. Triade: CGIL, CISL e UIL.

Perché applicare un CCNL siglato da questi soggetti?

L’INL ricorda l’importanza dell’integrale applicazione, da parte del datore di lavoro (dato che è questo il soggetto su cui ricade l’onere di scegliere quale contratto applicare), di un adeguato contratto collettivo (sotto il profilo della rappresentatività), ricordando in particolare che la legge subordina la fruizione di determinate discipline all’applicazione di contratti collettivi stipulati da soggetti dotati del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi.

In particolare viene ricordato quanto segue:

  • eventuali contratti di prossimità (previsti dall’art. 8 del D.L. 138/2011) sottoscritti da soggetti non “abilitati” non possono produrre effetti derogatori “alle disposizioni di legge (…) ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”;
  • l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale è indispensabile per il godimento di “benefici normativi e contributivi”, come stabilito dall’art. 1, comma 1175, L. 296/2006 e quindi per il godimento di tutte le agevolazioni contributive in genere (ad esempio l’incentivo per l’occupazione giovanile previsto dalla L. 205/2017, le agevolazioni connesse all’apprendistato, le riduzioni per oscillazione dei premi INAIL, ecc.).
  • il contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale rappresenta il parametro ai fini del calcolo della contribuzione dovuta, indipendentemente dal CCNL applicato ai fini retributivi (come previsto dall’art. 1, comma 1, D.L. 338/1989 e dall’art. 2, comma 25, L. 549/1995). Quindi, anche ove un’azienda applicasse un CCNL che preveda dei minimi retributivi inferiore a quelli previsti da un CCNL siglato dalla c.d. Triade, in ogni casi contributi previdenziali e premi assicurativi andrebbero calcolato sui minimi di quest’ultimo (con evidenti problemi di gestione partico-operativa, non solo a livello contabile);
  • solo i contratti collettivi “maggiormente rappresentativi” possono “integrare” la disciplina normativa di numerosi istituti in materia di lavoro. Ogniqualvolta il T.U. 81/2015 rimette alla “contrattazione collettiva” il compito di integrare la disciplina delle tipologie contrattuali, gli interventi di contratti privi del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi non hanno alcuna efficacia (come, ad esempio, nei casi di contratto di lavoro intermittente, al contratto a tempo determinato o a quello di apprendistato). Ne consegue che, laddove il datore di lavoro abbia applicato una disciplina dettata da un contratto collettivo che non è quello stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, gli effetti derogatori o di integrazione della disciplina normativa non possono trovare applicazione. Ciò potrà comportare la mancata applicazione degli istituti di flessibilità previsti dal D. Lgs. 81/2015 e, a seconda delle ipotesi, anche la “trasformazione” del rapporto di lavoro in quella che, ai sensi dello stesso decreto, costituisce “la forma comune di rapporto di lavoro”, ossia il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

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